Il sentimento più forte che mi ha suscitato la lettura di questo nuovo episodio delle avventure di Max Fridman è la malinconia.
Credo che Vittorio Giardino sia forse, tra quelli d'una certa fama, l'unico autore rimasto totalmente analogico. Disegna su carta, ripassa a china, fumetta a mano e colora direttamente sulle tavole o su appositi stamponi, esattamente come si faceva quarant'anni fa. Milo Manara, per dire, che pure sicuramente disegna su carta e pittura personalmente le sue tavole, per il lettering si è adattato ai font digitali.
Quando, nell'ormai lontano 1992, lo intervistai per Fumo di China (sul n. 15 da edicola, che festeggiava il 50esimo dalla nascita; chi ce l'ha se lo vada a rileggere, chi non ce l'ha potrà godersi l'intera intervista in una rivista-libro che ho in progetto per la fine dell'anno, naturalmente per i tipi delle Edizioni Foxtrot) Giardino stava lavorando a un fumetto su Piero della Francesca.
Studiandone le tecniche di lavoro abituali per tutti i pittori dell'epoca, si era reso conto di come un fumettista come lui utilizzasse modalità tecniche in fondo molto simili a quelle in uso nel Rinascimento per gli affreschi: "È impressionante, vedendo da vicino l'opera e studiandola anche un po' nelle sue modalità di esecuzione, rilevare la quantità di analogie che ci sono fra il mestiere del pittore in quei tempi e il mestiere dell'autore di fumetti oggi. Personalmente, la sparo grossa, trovo che ce ne siano molte di più che non fra il pittore di allora e il pittore di oggi. (...) Anche nella fase di realizzazione, il modo in cui lavorava direi che è molto più simile al nostro piuttosto che a quello di un pittore di oggi. Intanto, prima cosa ovvia, il tempo di esecuzione. Oggi credo che normalmente i pittori finiscano le loro opere in tempi relativamente ristretti, forse anche per le dimensioni più piccole. Piero sapeva benissimo in partenza che si trattava di un lavoro che sarebbe andato avanti come minimo qualche anno. E le modalità di esecuzione erano estremamente pensate, ragionate... voglio dire, certamente ha avuto un'ispirazione (sto usando termini un po' impropri) di tipo irrazionale nell'immaginare la sua composizione, però poi prima di passare alla realizzazione tutto è stato passato al vaglio di una razionalità non solo esecutiva, ma anche simbolica e ideologica. Veramente lontanissimo dall'idea dell'artista che in preda alla foga creativa, prende pennelli e colori e, zac-zac, senza quasi nemmeno rendersene conto realizza il quadro, capolavoro o schifezza che sia. Piero no: prepara tutti i cartoni in grandezza naturale (...) e fa, o fa eseguire dai suoi aiutanti - perché era un lavoro gigantesco e aiuti ne doveva avere - lo spolvero (procedimento che consiste nel riportare sull'intonaco il layout del disegno da eseguire, NdR). Dunque lo spolvero dei cartoni sul muro, quindi la traccia, poi l'affresco. Chiaramente lo dice il termine, era una pittura sull'intonaco fresco, che deve essere completata in otto-dieci ore, non di più perché poi l'intonaco secca e il colore non prende. Di conseguenza il muratore stendeva una superficie liscia d'intonaco, corrispondente a una giornata di lavoro del pittore. Il muratore non poteva stendere l'intonaco su tutto il muro, perché sarebbe seccato. Sul cartone – prassi normale, ma forse non tutti lo sanno – Piero identificava le zone corrispondenti alle giornate di lavoro in superfici più o meno ampie a seconda delle difficoltà. Quando c'era un volto, un ritratto, la superficie era piccola. Se doveva fare un cielo è chiaro che poteva finire anche due metri quadri in un giorno. Il muratore però nel riprendere l'intonaco lo faceva sì liscio, ma non perfettamente in piano con l'intonaco del giorno predente. Quindi nella giunzione fra gli intonaci di giorni successivi si sarebbe comunque vista una linea in rilievo, ed era importante di conseguenza che una giornata di lavoro corrispondesse al contorno di una figura in modo da mascherare il rilievo. Perciò le giornate di lavoro erano pianificate esattamente. Questo genere di tecnica è molto simile al lavoro dell'autore di fumetti."
Come si vede, una modalità non difforme da quella di chi colora una tavola a fumetti con gli acquarelli: non stende l'acqua su cui poi agirà il colore su tutta la vignetta, ma solo sulla parte/sulle parti a cui lavora di volta in volta... i visi, il cielo, un vestito, un oggetto... e solo quando il colore steso in quella fase è asciutto passa a bagnare altre parti su cui stendere differenti colori.
L'approccio di pieno controllo sul proprio lavoro, riportato all'attività del singolo autore di fumetti che non si fa aiutare da una "bottega" di assistenti, è quello scelto fin dall'inizio della carriera da Vittorio Giardino che crea nell'intimità dello studio, in solitudine, le sue opere fase dopo fase. Visto il grande successo delle sue opere, non ha mai sentito il bisogno di cambiare, di sperimentare diverse tecniche e tantomeno tecnologie. L'interesse - e lo scopo - dell'autore bolognese è uno solo: raccontare, col linguaggio del fumetto, le storie che gli premono dentro. E come non ha mai rinunciato ad arricchire le sue vignette di tutti i particolari che "sentiva" necessari anche quando per il lettore potevano risultare inutili ("Spesso mi hanno criticato, e a ragione, perché le mie tavole avevano troppa roba dentro. Il che, se anche non disturba, comunque è inutile perché poi tanto nessuno li vede tutti questi oggettini sui tavolini, con il bicchiere, la bottiglia... e si legge anche il nome sull'etichetta! Assolutamente assurdo, è vero. Sono però stato confortato e gratificato nel vedere che quello che ritengo uno dei più grandi artisti del Rinascimento italiano faceva qualcosa di simile. Anche lui realizzava dei dettagli che da mezzo metro, dalle impalcature, tu vedi ma normalmente, coi piedi sul pavimento dell'abside ti sfuggono. Perché diavolo ce li metteva, se nessuno li avrebbe visti? Io credo che ce li abbia messi perché doveva metterceli, per sé stesso"), nello stesso modo non ha mai sentito il bisogno di utilizzare le possibili scorciatoie offerte dalle sopravvenute nuove tecnologie per velocizzare un lavoro la cui inevitabile lentezza, date le modalità, pure lo ha sempre crucciato (ancora dall'intervista: "Essendo molto lento dovrei cercare di non insistere più di tanto su un particolare disegno. Invece poi, pur essendo spesso in ritardo, il tempo me lo prendo lo stesso. Per cui insisto su quel che faccio fino ad arrivare al massimo di cui sono capace").
Anche questo nuovo lavoro è dunque Giardino al cento per cento, che è poi quello che vogliono i suoi lettori, me compreso. Questo non impedisce che davanti a quest'opera realizzata coerentemente "come lui sa ed è abituato a fare" si venga colti dalla sensazione che si tratti della testimonianza, tenace ma in qualche modo malinconica, di un modo di fare arte sequenziale e di un mondo destinati a sparire, di fatto già spariti. Non è l'ultimo soldato giapponese rimasto nella giungla convinto che la guerra continui ancora. Giardino è troppo intelligente per non vedere e sapere cosa sia successo all'editoria fumettistica negli ultimi trent'anni. La sua non è dunque la battaglia di un irriducibile, ma solo l'onestà di restare fedele a sé stesso, finché dura.
Ma veniamo al libro, diviso in due parti che avrebbero anche potuto vivere separatamente.
Nella prima l'autore costruisce una narrazione drammatica immergendoci nel crescendo di ghettizzazione e criminalizzazione della comunità ebraica nella Vienna del '38. Seguiamo le vicende della famiglia Meyer, sempre più messi alle strette e quando, troppo tardi, si decidono ad abbandonare il Paese, viene loro impedito di farlo. Per loro fortuna sono cugini dei Fridman, e la madre di Max (entriamo così nella seconda parte del volume, quella avventuroso-spionistica) chiede al figlio di trovare il modo di farli uscire dall'Austria nazistizzata. Inizia una lotta sotterranea tra le paranoie di un ufficiale dei servizi segreti locali e il protagonista che, conoscendo i suoi polli, non ha eccessive difficoltà a farsi gioco della macchina repressiva delle camicie brune. Il pathos non manca, la tensione e i colpi di scena neppure.
Nelle 164 tavole della storia, con gli abituali ritmi tra film e romanzo adeguati all'evolversi della vicenda, Giardino ci regala un'altra delle sue perle, pienamente godibile. La scrittura è precisa, il pennino sempre efficace e la colorazione non invadente.
Insomma, il libro merita l'acquisto e la lettura. Nonostante quel sentimento di malinconia che ci lascia dentro.